La strada. Un racconto di Vasilij Grossman

La strada

(traduzione di Valeria Cavalloro)

La guerra coinvolse tutti gli esseri viventi sulla penisola dell’Appennino.
Il giovane mulo Giù, che prestava servizio nel convoglio del reggimento di artiglieria, il 22 giugno del 1941 percepì di colpo molti cambiamenti, ma naturalmente non sapeva che il führer aveva convinto il duce a entrare in guerra contro l’Unione Sovietica.
Gli uomini si sarebbero meravigliati se fossero venuti a conoscenza di quante cose poteva notare un mulo nel giorno dello scoppio della guerra a est – la radio ininterrottamente accesa, la musica, i portoni aperti della scuderia, la folla di donne con bambini vicino alla caserma, le bandiere sopra di essa, l’odore di vino di quelli che prima non odoravano di vino, le mani tremanti del conducente Niccolò mentre portava Giù fuori dalla stalla e gli metteva l’imbracatura.
Il conducente non amava Giù; lo attaccava alla stanga sinistra per poterlo più comodamente colpire con la mano destra, e lo colpiva sulla pancia, invece che sul dorso robusto, e la mano di Niccolò era pesante, bruna, con le unghie curve – la mano di un contadino.
Nei confronti del mulo suo compare Giù era indifferente. Era un animale grande e forte, diligente e tetro; aveva il pelo del petto e dei fianchi consumato dall’imbracatura e dalle tirelle, le spellature nude e grigie lucevano di un grasso luccichìo nerastro.
Gli occhi del compare erano appannati da un fumo azzurrognolo, il suo grugno con i gialli denti consumati manteneva un’espressione impassibile e assonnata sia nel salire una montagna sull’asfalto sciolto dalla canicola, sia nel riposarsi all’ombra degli alberi. Eccolo stare al valico di una vallata montana: davanti a lui si stendono giardini e vigneti, intrecciati al grigio nastro dell’asfalto sconfitto, all’orizzonte luccica il mare, nell’aria c’è l’odore dei fiori, dello iodio marino, del refrigerio montano, e contemporaneamente quello della polvere calda e secca della strada… gli occhi del compare sono impassibili, le narici non fremono, dal labbro inferiore, un po’ sporgente, penzolano lunghi fili di bava trasparente; ogni tanto un orecchio si agita appena: ha sentito i passi del conducente Niccolò. Ma quando poi c’erano i cannoni ai tiri di esercitazione, era come se il vecchio mulo dormisse, e le sue lunghe orecchie non si muovevano affatto.

Una volta Giù aveva provato a dare al vecchio uno spintone per gioco, ma quello in tutta calma aveva assestato senza cattiveria un calcio al giovane mulo e si era voltato. Ogni tanto Giù smetteva di tendere le tirelle e volgeva gli occhi verso di lui, ma quello non scopriva i denti, non appiattiva le orecchie: tirava a tutta forza, ansimava e faceva svelto svelto su e giù con la testa.
Avevano smesso di fare caso l’uno all’altro, benché giorno per giorno tirassero il carro, colmo di casse di munizioni, bevessero dallo stesso secchiello, e durante la notte Giù sentisse il pesante respiro del vecchio nella stalla accanto.
Il conducente, i suoi scopi, l’autorità, la sua frusta, gli stivali, la voce rauca, non sapevano suscitare in Giù alcuna servile ammirazione.
A destra camminava il compare, alle spalle sferragliava il carro e di tanto in tanto urlava il conducente, davanti agli occhi si stendeva la strada. A volte sembrava che il conducente fosse un pezzo di carro, a volte sembrava che fosse la base e che il carro stesse sopra di lui. E la frusta? Be’, anche le mosche rodevano a sangue la punta delle orecchie, ma le mosche erano solo mosche. Così pure la frusta. Così pure il conducente.
Quando Giù aveva cominciato ad andare alla stanga, aveva segretamente inveito contro l’inutilità del lungo asfalto: lui non poteva né masticare né bere, e invece a entrambi i lati di quello cresceva un cibo fronzuto ed erboso, e c’era acqua nei laghi e nelle pozzanghere.
L’asfalto gli era parso il peggior nemico, ma passato un po’ di tempo per Giù divennero più odiosi il peso del carro, le redini, la voce di Niccolò.
Allora si riappacificò persino con la strada, sembrandogli che lei lo avrebbe liberato dal carro e dal conducente. La strada andava alla montagna, serpeggiava tra gli alberi di arance, il carro sferragliava monotono e insistente dietro la schiena, e l’imbracatura di cuoio premeva sulle ossa del petto.
Ma l’insensato lavoro imposto dall’esterno gli faceva venire voglia di prendere a calci il carro e strappare con i denti le tirelle, e alla fine Giù aveva smesso di aspettarsi qualcosa dalla strada, e non voleva metterci piede. Nella sua grande testa vuota sorgevano di continuo le immagini, gli odori e i gusti del cibo, visioni nebulose che lo agitavano: a volte era il profumo degli steli, la succosa dolcezza delle foglie, il tepore del sole dopo la fredda notte, a volte era la frescura dopo la canicola siciliana…
La mattina infilava la testa nell’imbracatura, aggiustata dal conducente, e come al solito il suo petto sentiva il freddo della pelle morta lucidata. Ormai lo faceva senza rovesciare la testa, senza digrignare i denti, proprio come il vecchio compare – l’imbracatura, il carro, la strada divennero parte della sua vita.
Tutto diventò abituale, e di conseguenza legittimo, e si fuse, si trasformò nella naturalezza della vita: il lavoro, l’asfalto, l’abbeveratoio, l’odore del grasso delle ruote, il fracasso dei fetidi cannoni dai lunghi affusti, le dita puzzolenti di tabacco e di cuoio del conducente, il sacchetto serale di chicchi di granturco, il fastello di fieno ruvido…
Capitava che questa monotonia fosse turbata. Provò cos’era il terrore quando, avvolto in corde, una gru lo trasportò dalla riva su un battello: aveva la nausea, la terra di legno gli sfuggiva da sotto gli zoccoli, e non gli andava di mangiare. Poi ci fu l’arsura, più forte di quella italiana, e gli calzarono in testa un berrettino di paglia; ci fu il continuo arrampicarsi su per le ripide, rosse strade sassose dell’Abissinia, le palme, alle cui foglie non si poteva arrivare con le labbra. Un giorno, lo sorprese molto una scimmia su un albero, e molto lo spaventò un grosso serpente sulla strada. Le case erano commestibili, e a volte mangiava le pareti di canne e i tetti erbosi. I cannoni sparavano spesso, e spesso ardeva il fuoco. Quando il convoglio si fermava allo scuro margine del bosco, per tutta la notte sentiva suoni malintenzionati, fruscii; alcuni erano rumori spaventosi, e Giù tremava e sbuffava.
Poi ebbe di nuovo la nausea: la terra di tavole gli sfuggiva da sotto gli zoccoli, e tutto intorno c’era una pianura azzurrognola, e in modo assolutamente incomprensibile, anche se lui non si era quasi affatto mosso, all’improvviso sorse la scuderia, dove di notte nella stalla accanto respirava pesantemente il compare.
Ma dopo qualche giorno segnato dalla musica e dalle mani tremanti del conducente, di nuovo sparì la scuderia, comparve la terra di tavole, colpi, colpi, colpi, urti e stridori; e poi l’oscurità e l’angustia di quella stalla sferragliante furono sostituite dalla vastità di una pianura che non aveva fine.
Sulla pianura stava una polvere morbida, grigia, né italiana né africana, e per la strada si muovevano senza sosta verso oriente camion, trattori, cannoni con affusti lunghi e corti, e passavano colonne di conducenti a piedi.
La vita diventò straordinariamente dura, tutta trasformata in movimento: il carro era sempre carico, il compare ansimava pesantemente, il suo respiro si sentiva sulla grigia strada polverosa qualunque fosse il rumore.
Iniziò la morìa degli animali che erano vinti dall’immensità dello spazio. I corpi dei muli erano portati sul bordo della strada, giacevano con le pance gonfie, le zampe che avevano fatto tanti passi distese; le persone erano loro smisuratamente indifferenti, e anche i muli sembrava che non notassero i propri morti: dondolavano le teste, tiravano e tiravano. Ma sembrava soltanto – i muli vedevano i propri cadaveri.
Su questa terra pianeggiante il cibo risultava meravigliosamente gustoso. Era la prima volta che Giù mangiava un’erba così morbida e succosa, la prima volta nella vita che mangiava un fieno così tenero e fragrante, e l’acqua in quel piatto paese era buona e dolce, e il sapore delle succulente scope di giovani rametti non era quasi per niente amaro.
Il tiepido vento non bruciava la pianura come i venti africani e siciliani, e il sole scaldava la pelle in modo delicato, tenero: non si camminava sotto l’implacabile sole d’Africa.
Persino la fine polvere grigia, giorno e notte sospesa nell’aria, sembrava delicata e morbida come la seta in confronto alla pungente polvere rossa del deserto.
Ma era la semplice vastità di quella pianura ad essere incrollabilmente crudele, vastità che non aveva fine – quanti muli ci trotterellavano, dondolando le orecchie… e la pianura era più forte di loro. I muli andavano a rapidi passi alla luce del sole e alla luce della luna, e la pianura durava dappertutto. I muli correvano, battevano con gli zoccoli sull’asfalto, alzavano la polvere sulla strada provinciale, e la pianura durava e durava. Non aveva un’uscita né sotto il sole né sotto la luna e le stelle. Non ne sorgevano né mare né montagne.
Il periodo delle piogge arrivò gradualmente, Giù non si accorse nemmeno di come fosse iniziato. Freddi scrosci si riversarono sul mondo, e la vita da monotona stanchezza si trasformò in dolore tagliente, in prostrazione.
Tutto ciò da cui era composta l’esistenza del mulo diventò più pesante: la terra si fece appiccicosa, confabulava, grufolava, la strada diventò tutta vischiosa e perciò si allungò, e ogni passo su di lei diventò come molti passi, e il carro si fece insopportabilmente pigro, testardo, e sembrava che Giù e il collega trascinassero dietro di sé non un carro, ma molti. Il conducente adesso urlava senza sosta, colpiva con la frusta dolorosamente e spesso, e sembrava che sul carro sedesse non un conducente, ma molti. E anche le fruste diventarono molte, e tutte loro erano mordaci, malevole, fredde e roventi nello stesso tempo, pungenti, fastidiose.
Trascinare il carro sull’asfalto sembrava una cosa più piacevole dell’erba e del fieno, ora che le zampe non vedevano l’asfalto per giornate intere.
I muli scoprirono il freddo, il tremito della pelle inumidita sotto la fine pioggia autunnale. I muli tossivano, si ammalavano di infiammazioni ai polmoni. Sempre più spesso trascinavano sul bordo della strada quelli per i quali la strada era finita, il movimento era cessato.
La pianura si allargava – la sua enormità ora era percepibile non solo per gli occhi, ma per tutti e quattro gli zoccoli. Le unghie andavano sempre più a fondo nella terra ammollata, le zolle appiccicose trattenevano ostinatamente indietro le zampe, e sempre più grande, più vasta, più possente, si apriva, si estendeva la pianura appesantita dalla pioggia.
Nel grande, spazioso cervello del mulo, dove prima nascevano nebulose immagini di odori, forme, colori, sorse la visione di un concetto completamente diverso, creato dal pensiero dei filosofi e dei matematici – la visione dell’infinito: della nebbiosa pianura russa e della fredda pioggia autunnale che si riversava ininterrottamente su di essa.
Ed ecco ancora che in cambio di questa immagine scura, torbida, pesante, ne arrivò una nuova – bianca, secca, arida, che bruciava le narici e scottava i denti.
L’inverno divorò l’autunno, ma questo non portò alcun sollievo dal peso dei giorni. Arrivò un peso ulteriore. Il predatore crudele e avido divorò il predatore meno forte…
Lungo la strada accanto ai corpi dei muli ora giacevano persone morte – il ghiaccio aveva tolto loro la vita.
Il superlavoro senza tregua, il freddo, la logora imbracatura entrata nella pelle del petto fino alla carne, le piaghe insanguinate sul garrese, il dolore alle zampe, gli zoccoli consumati, sbriciolati, le orecchie congelate, i reumatismi agli occhi, le coliche alla pancia per via del cibo gelato e dell’acqua ghiacciata, gradualmente estenuavano le forze fisiche e spirituali di Giù.
Lo sommerse un attacco enorme e indifferente. Il colossale mondo sempre più si ammucchiava incurante sopra di lui. Persino la cattiveria del conducente era cessata – si era raggrinzito, non lottava con la frusta, non colpiva con gli stivali quei sensibili ossicini della zampa davanti…
Lentamente, ineluttabilmente, la guerra e l’inverno stavano schiacciando il mulo, e Giù rispose all’enorme insensibile attacco che si apprestava ad annientarlo con la smisuratezza della sua impassibilità.
Diventò l’ombra di se stesso, e questa viva ombra cinerina ormai non sentiva né il proprio calore, né il piacere del cibo e del riposo. Gli era tutto indifferente: muoversi sulla strada ghiacciata, alternando meccanicamente le zampe, o starsene a testa bassa. Masticava il fieno con indifferenza, senza gioia, così come con indifferenza sopportava la fame e la sete, e il tagliente vento invernale. I globi dei suoi occhi erano feriti dal candore della neve, ma il crepuscolo e le tenebre gli erano indifferenti, non li voleva e non li aspettava.
Camminava accanto al vecchio compare, al quale adesso era ormai completamente identico, e la loro indifferenza l’uno per l’altro era vasta quanto la loro indifferenza per se stessi.
Questa indifferenza per se stesso era la sua ultima ribellione.
Essere o non essere diventò per lui la stessa cosa; in qualche modo il mulo aveva risolto il dubbio amletico.
Avendo reso se stesso così docilmente insensibile all’esistenza e all’inesistenza, perse la percezione del tempo: giorno e notte scomparvero nella sua coscienza, il freddo sole e le tenebre senza luna diventarono uguali.
Quando cominciò l’offensiva russa, il gelo non era particolarmente forte.
Giù non si fece prendere dal panico durante l’avvilente schieramento degli artiglieri, e non strappò le tirelle né tirò calci quando nel cielo nuvoloso si accese il bagliore dell’artiglieria, e la terra cominciò a oscillare, e l’aria, lacerata dall’urlo e dal muggito dell’acciaio, si riempì di fuoco, di fumo, di zolle di neve e argilla.
La fiumana in fuga non lo prese con sé. Stava lì, con la testa e la coda abbassate, e accanto a lui correvano, cadevano, saltavano su e di nuovo correvano, strisciavano le persone, strisciavano i trattori, sfrecciavano i camion dal muso rincagnato.
Il compare lanciò uno strano grido con una voce simile a quella umana, cadde, dimenò le zampe, poi si quietò, e la neve intorno a lui diventò rossa.
La frusta giaceva sulla neve, e anche il conducente Niccolò giaceva sulla neve. Giù non sentiva più lo scricchiolio dei suoi stivali, non percepiva l’odore del tabacco, del vino, del cuoio.
Il mulo stava lì, docilmente insensibile, e non aspettava il compiersi di alcun destino – nuovo destino e vecchio destino erano per lui ugualmente indifferenti.
Venne il crepuscolo. Calò il silenzio. Il mulo se ne stava con la testa abbassata, la coda abbandonata come una frusta. Non si guardava intorno, non stava in ascolto. Nella vuota testa impassibile continuava a rombare il fuoco dell’artiglieria, ammutolito ormai da un pezzo. Ogni tanto, raramente, si appoggiava su una zampa o sull’altra, e di nuovo si faceva immobile.
Intorno giacevano corpi di persone e di animali, autocarri fracassati, rovesciati, qua e là scivolava pigramente un filo di fumo.
E più oltre, senza inizio, senza confine, c’era la nebbiosa, caliginosa, innevata pianura.
La pianura aveva assorbito tutta la vita passata – la canicola, la ripidezza della strada rossa, l’odore degli steli, il rumore dei ruscelli. Ormai Giù si distingueva a stento dall’immobilità che lo circondava, sempre più si fondeva con lei, si univa alla pianura nebbiosa.
Quando i carri armati infransero la quiete, Giù li sentì per il fatto che il suono metallico, riempiendo l’aria, entrava nelle orecchie morte delle persone e degli animali, ed entrava anche nelle orecchie dell’avvilito mulo vivo.
E quando l’immobilità della pianura fu infranta, e i carri da cannone cingolati disposti in bell’ordine passarono stridendo sulle terre innevate, da nord a sud, Giù li vide – si riflettevano nei parabrezza e negli specchietti delle macchine abbandonate, e si specchiarono negli occhi del mulo, che stava presso il carro rovesciato. Ma lui non si tirò da parte, anche se il ferro cingolato gli passava vicinissimo soffiando un calore amaro e un alito oleoso.
Poi dalla bianca pianura si staccarono bianche figure umane, che si mossero silenziosamente e in fretta, non come persone, ma come cacciatori rapaci, e scomparvero, si dissolsero, assorbiti dall’immobilità delle terre coperte di neve.
E poi rumoreggiò, scendendo da nord, una fiumana di persone, macchine, attrezzi, convogli scricchiolanti…
La fiumana camminava sulla strada, il mulo se ne stava lì senza volgere gli occhi e il movimento lo oltrepassava, ma ben presto diventò così ampio che dilagò oltre il ciglio.
Ed ecco che a Giù si avvicinò un uomo con la frusta. Quello lo guardò, e il mulo sentì provenire da lui un odore di tabacco e cuoio.
L’uomo, proprio come faceva Niccolò, batté Giù sui denti, sul muso, sul fianco.
Strattonò le redini, disse qualcosa con voce rauca, e involontariamente il mulo guardò il conducente Niccolò che giaceva sulla neve – ma quello non parlò.
L’uomo tirò di nuovo le redini, ma il mulo non si mosse, continuò a starsene fermo.
L’uomo si mise a urlare, si scaldò, e i suoi comandi minacciosi erano diversi da quelli dell’italiano non per la minacciosità, ma per i suoni con cui la minaccia era pronunciata.
E poi l’uomo diede al mulo un colpo di stivale sugli ossicini della zampa davanti, che prese a dolergli; proprio su quegli ossicini era solito colpirlo con lo stivale Niccolò, e lì era particolarmente sensibile.
Giù si avviò dietro il nuovo conducente. Si avvicinarono ai carri attaccati. Altri conducenti li circondarono: facevano chiasso, dimenavano le mani, ridevano, battevano Giù sulla schiena e sui fianchi. Gli diedero del fieno, e mangiò. Ai carri erano attaccate coppie di cavalli con le orecchie corte e gli occhi cattivi. Muli non ce n’erano.
Il conducente portò Giù verso un carro al quale era stato attaccato un cavallo solo, senza compare.
Il cavallo era scuro, piccolo, e il grande mulo sembrava più alto di lui. Quello lo guardò, appiattì le orecchie e poi le allungò, dondolò la testa, si voltò, e sollevò la zampa posteriore, preparandosi a dare un calcio.
Era magro, e quando inspirava l’aria le costole passavano come un’onda sotto la sua pelle, sopra la quale, come su quella di Giù, si vedevano delle scorticature insanguinate.
Giù stava con la testa abbassata, come prima indifferente al fatto di esserci o non esserci, mitemente indifferente al mondo, perché il mondo della pianura con indifferenza lo aveva annientato.
Lui, al solito, così come aveva fatto centinaia di volte fino ad allora, fece passare la testa nell’imbracatura, che non era di cuoio, ma sfiorò il suo stanco petto proprio come se lo fosse, e il suo odore era strano, inusuale, equino. Ma al mulo anche questo odore era indifferente.
Il cavallo fece paio con lui, e lui era insensibile al calore che gli arrivava dai suoi fianchi scavati.
Quello appiattì le orecchie quasi attaccate alla testa, e il suo muso si fece maligno, rapace, non come quello di un erbivoro. Ruotò gli occhi, sollevò il labbro superiore e scoprì i denti, preparandosi a mordere, ma Giù nella sua indifferenza gli avvicinò il muso e il collo indifesi. E quando quello cominciò a indietreggiare, tendendo la bardatura e voltandosi verso di lui a ritroso per trovare il modo di appioppargli un colpo di zoccolo, lui non si inquietò, ma se ne stette lì avvilito, così come era stato accanto al carro schiacciato, al compare morto, al morto Niccolò, e alla frusta che giaceva sulla neve. Ma il conducente si mise a urlare e colpì il cavallo con la frusta, e poi con quella stessa frusta – sorella della frusta che giaceva sulla neve – colpì il mulo: l’abbattuto animale, evidentemente, lo irritava, e la sua mano era come quella di Niccolò – una pesante mano di contadino.
E Giù all’improvviso volse gli occhi al cavallo, e il cavallo guardò Giù.
Ben presto il convoglio cominciò a mettersi in moto. E di nuovo come al solito il carro scricchiolava, e di nuovo davanti agli occhi c’era la strada, e dietro la schiena il peso, e il conducente, e la frusta, ma Giù sapeva che non si sarebbe liberato dal peso con l’aiuto della strada. Trotterellava, e la pianura innevata non aveva inizio né fine.
Ma stranamente, dall’abituale mondo di indifferenza nel quale si muoveva sentì che il cavallo, che gli correva accanto, non era indifferente a lui.
D’un tratto quello scosse la coda dalla parte di Giù, una coda liscia come la seta che non era affatto simile alla frusta o alla coda del vecchio compare, e che scivolò carezzevolmente sulla sua pelle.
Passò non molto tempo, e il cavallo di nuovo scosse la coda, anche se nella pianura innevata non c’erano né mosche, né moscerini, né tafani.
E Giù voltò gli occhi verso il cavallo che gli correva accanto, e quello proprio in quell’attimo voltò gli occhi dalla sua parte. Ora non erano più cattivi, ma appena appena maliziosi.
Nella continuità dell’universale indifferenza serpeggiò una piccola increspatura – una crepa.
Nel movimento il corpo cominciò a scaldarsi, e Giù sentì l’odore del sudore del cavallo, e il suo respiro, che odorava di fieno umido e dolce, e tutto lo toccava sempre più forte.
Senza sapere lui stesso perché, tese le tirelle, e le ossa del suo torace sentirono il peso e la pressione, e si allentò l’imbracatura del cavallo, per il quale divenne più facile tirare la stanga.
Così corsero per lungo tempo, finché di colpo il cavallo si mise a nitrire. Nitriva piano piano, così piano, che né il conducente né la pianura che giaceva intorno sentivano il suo nitrito.
Nitriva così piano, che solo il mulo che correva accanto a lui lo sentiva.
Non gli rispose, ma dal modo in cui allargò di colpo le narici fu chiaro che il nitrito del cavallo lo aveva raggiunto.
E a lungo, a lungo, fin quando il convoglio non si fermò per fare una sosta, corsero vicini, dilatando le narici, e l’odore del mulo e l’odore del cavallo che tiravano lo stesso carro si mescolarono in un solo odore.
Ma quando il convoglio si fermò, e il conducente li staccò, e loro insieme mangiarono e bevvero l’acqua dallo stesso secchiello, il cavallo si avvicinò al mulo e appoggiò la testa sul suo collo. Le sue morbide labbra mobili gli sfiorarono le orecchie, e Giù guardò fiduciosamente con i suoi occhi malinconici il cavallo colcosiano, e il respiro di quello si mescolò con il respiro tiepido e buono di lui.
In questo gentile calore si risvegliò ciò che si era addormentato, resuscitò ciò che era morto da tempo – il dolce latte materno amato da puledro, il primo filo d’erba della vita, la crudele pietra rossa delle strade montane dell’Abissinia, la canicola nei vigneti, le notti di luna nei boschetti di aranci, il terribile superlavoro, che sembrava averlo del tutto annientato con il suo peso indifferente, ma che a ben vedere, ad annientarlo, non c’era riuscito davvero fino in fondo.
Attraverso il tepore del respiro, la stanchezza degli occhi, la vita del mulo e il destino del cavallo di Vologda semplicemente si comunicarono dall’uno all’altro, e c’era qualche strano incanto in queste creature che se ne stavano una vicina all’altra, fiduciose e carezzevoli, in mezzo alla pianura di guerra sotto il grigio cielo invernale.
– Ma l’asino, il mulo qui, si è adattato al russo! – scoppiò a ridere un conducente.
– No, guarda, piangono tutti e due. – disse un altro.
Ed era vero, piangevano.

1961 – 1962

Fonte: http://quattrocentoquattro.com

Nota del 13/05/11 – Ieri abbiamo presentato questo testo come inedito, ci hanno però segnalato che il racconto di Grossman è stato pubblicato appena dieci giorni fa nella raccolta Il bene sia con voi! per Adelphi, con la traduzione di Claudia Zonghetti. Non ne eravamo a conoscenza. La nostra traduttrice ha lavorato indipendentemente sul testo originale, giungendo all’esito che vi presentiamo. Anche se con qualche rammarico per la perdita del carattere inedito, siamo comunque contenti che un racconto di tale livello possa avere l’adeguata diffusione.

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