GLI ANIMALI NON POSSONO SCIOPERARE / di Rita Ciatti

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di Rita Ciatti
Asinus Novus 6 marzo 2013 

È fama tra gli etiopi che le scimmie non parlino di proposito, per non essere obbligate a lavorare” (Jorge Luis Borges).

 

Esaurimento delle risorse energetiche, tutela dell’ambiente, sovrappopolazione, effetti dell’ipertecnologia, crisi economica, inquinamento: problematiche riguardanti danni causati dalla specie umana, cui la stessa tenta di rimediare, o comunque derivanti dall’enormità dell’impatto che la nostra presenza ha sul pianeta e che finisce per coinvolgere ogni aspetto e parte dello stesso.
 E come si tenta di arginarli o di volervi porre rimedio? Come al solito, che fa la specie umana ogni qualvolta si scopre in difficoltà o ha esigenze di tipo pratico? Ricorre allo sfruttamento della forza lavoro più economica, veloce e pratica che ci sia: gli animali. Non possono ribellarsi, non devono essere pagati (a parte un minimo di vitto e alloggio), non vanno a lamentarsi dai sindacati, non scioperano, non hanno diritto alle ferie, né tantomeno ad andare in pensione quando ormai vecchi e stanchi, infatti molto più semplicemente si mandano al macello e via, problema risolto, avanti il prossimo:  si chiamano, non a caso, risorse rinnovabili.

Dunque pare che in alcune realtà sia già in atto un ritorno alle origini della trazione animale nell’agricoltura per lavori come l’aratura, la concimazione, il trasporto del fieno e della legna e per altro ancora.

Qui potete leggere l’articolo in cui se ne parla e vi pregherei di leggerlo attentamente.

Ovviamente l’articolo è scritto per dare risalto agli aspetti positivi di questo ritorno alla trazione animale, quindi risparmio di carburante, con conseguente riduzione dell’inquinamento, risparmio anche di denaro (si sa, il carburante costa moltissimo), minor danneggiamento del terreno ecc..

E dell’animale, nello specifico il cavallo, che si dice? Questo: “Basta conoscere le esigenze del cavallo e prendersene cura, prestando attenzione all’addestramento, che dura un paio di mesi, e al rapporto tra animale e conducente.”.

Un addestramento che dura un paio di mesi. Che significa? Significa che il cavallo, in natura, ossia se fosse libero, a tutto penserebbe fuorché a trainare un veicolo pesante, non essendo nato per fare questo tipo di lavoro. E rapporto tra animale e conducente che significa? Che il conducente ovviamente è libero di mettergli il morso, di frustarlo, di costringerlo a lavorare sotto al sole, alla pioggia, come e quando fa comodo a lui.

Mi giungono, anche da parte di persone attente alla questione animale (ossia che rifiutano o vedono in maniera critica lo sfruttamento degli animali nei più disparati settori), segnali di perplessità, ma non di netto rifiuto. Sento parlare di possibili o probabili sinergie tra animale e uomo, di collaborazioni proficue per entrambi, così come esistono quelle tra uomo e uomo.

Il punto è che di collaborazione tra umani si può parlare perché esiste la possibilità e certezza del consenso reciproco, ma il cavallo, o qualsiasi altro animale, invece sarebbe usato contro la sua volontà, per di più dopo essere stato sottoposto a due mesi di addestramento (e sappiamo che gli addestramenti implicano sempre una certa dose di violenza e costrizione). Per il cavallo costretto a trainare un veicolo, poco importa se questo sia finalizzato all’agricoltura ecologica o a portare a spasso i turisti a Roma, sempre di dover sopportare un duro lavoro si tratterebbe. In questo senso tra la botticella romana (carrozza trainata appunto da cavalli per portare in giro i turisti) – cui ogni attivista per la liberazione animale si oppone – e il trattore, non c’è nessuna differenza, sempre di sfruttamento si tratterebbe, anche se per un diverso fine; ma queste diverse finalità sono percepibili soltanto da noi, ossia rimangono strettamente chiuse entro una possibilità di comprensione ancora e sempre rigorosamente antropocentrica. Chi glielo spiega al cavallo che la fatica che compierebbe a trainare il trattore sarebbe una fatica buona e giusta poiché utile all’ecologia e all’economia, mentre quella del trainare la botticella sarebbe invece inutile poiché voluttuaria? Quel che il cavallo dovrebbe sopportare sarebbe sempre e solo la dura fatica.

Comprendo il problema della risorse energetiche, ma ancora una volta gli animali sarebbero costretti a rimetterci per risolvere un problema che abbiamo causato noi.

La risposta alle nostre esigenze non possono essere sempre e solo gli animali.

Non è possibile che ogni volta che si presenta una necessità noi ci rivolgiamo agli animali (in quanto, poverini, sfruttabili senza che si possano ribellare e a costo zero, se non quello del loro mantenimento). Non si può parlare di sinergia tra umani e non umani perché i non umani non sono nati per lavorare e per essere asserviti a noi.

Liberazione animale significa smettere di sfruttare gli animali e vi è sempre sfruttamento laddove all’animale è impedito di vivere secondo le proprie reali esigenze di specie.

Noi siamo una specie molto particolare perché ci siamo evoluti (tecnologicamente, scientificamente, culturalmente ecc.) pagando un prezzo altissimo, ossia quello di restare invischiati in una ragnatela che noi stessi abbiamo contribuito a tessere (per dirla con Max Weber); siamo imprigionati in questa ragnatela gigantesca (cui oggi si è aggiunta pure quella virtuale, non a caso si chiama web) di sovrastutture sociali (il lavoro, le istituzioni, l’educazione, i costumi morali, diciamo la cultura intesa come tutto ciò che la specie umana è capace di produrre sia sotto il profilo intellettuale che materiale) che, per quanto abbiano migliorato alcuni aspetti della nostra esistenza, ci hanno anche indubbiamente resi schiavi e pieni di nevrosi. Il lavoro, così come è contemplato nell’odierna società capitalista e dei consumi è una forma di schiavitù terrificante. Io non dico che non si debba lavorare, ma che è tristissimo questo riconoscimento del solo lavoro monetizzato atto a produrre altro denaro.

Come scrive Leonardo Caffo in Flatus Vocis, noi nasciamo all’interno di un paradigma sociale che ha già previsto ogni nostro atto, sempre finalizzato alla realizzazione di azioni preordinate dal sistema. Ridiventare uomini, scrollandoci di dosso la veste di cittadini, quindi riappropriandoci della nostra natura animale, ripartendo proprio da ciò che tutte le specie condividono – la fragilità del corpo, la materia carne, la possibilità di perire, morire, così come di essere nel mondo divenendo nel mondo perché il mondo diviene con noi e non è un ente astratto che va riempito con una serie di azioni già previste – potrebbe essere la via per guarire dalla nevrosi cui le superfetazioni istituzionali e sovrastrutturali ci condannano.

Non già quindi far diventare gli animali come noi, costringendoli a lavorare per noi, per questa società che è solo il prodotto del nostro antropocentrismo, ma, al contrario, liberando loro, tentare di liberare anche noi stessi.

Mi si perdonerà questa divagazione, quello che mi preme comunque ri-ribadire è che in nessunissima maniera gli animali devono essere sfruttati da noi.

Ci sono obiezioni  e contestazioni che mi si faranno: ma allora la pet therapy, e il cane da fiuto che cerca i tartufi?

Io dico, purché non si alteri la naturale predisposizione dell’animale. Per un cane esercitare il fiuto – senso sviluppatissimo – potrebbe anche essere divertente, a patto che egli non venga considerato unicamente per questa sua peculiarità e ridotto a questa sola mansione. Nessuna esistenza può essere riducibile a una mansione, a un lavoro, a uno scopo, ma essa è unicamente di per sé. Detto in altri termini, se riuscissi a insegnare al mio amico a quattrozampe – con cui ho una vera relazione affettiva e amicale – a riconoscere i tarfufi o i funghi e lo volessi portare nei boschi con me sperando che mi dia una mano, non ci vedrei nulla di male. Ma mettere invece su un allevamento di cani addestrati, venduti e comprati all’uopo sarebbe cosa ben diversa, si tratterebbe di mercificazione e commercio, sistemi che contrastano con qualsiasi idea di antispecismo.

Cerchiamo, come detto sopra, di fare un passo indietro riscoprendo ciò che naturalmente condividiamo con gli altri animali, non forzando questi ultimi a diventare come noi e a partecipare delle nostre cose tutte umane, ma spingendoci in direzione di un’accettazione e di un’apertura verso quelle che sono le loro reali esigenze e aspettative di vita.

Antispecismo non significa assimilare gli animali a noi, ma aprirsi alla diversità. Perché il cavallo dovrebbe lavorare per noi?

Non avrei nulla in contrario alla pet therapy nel caso in cui essa rientrasse nelle dinamiche relazionali e affettive tra uomo e animale sviluppate in maniera non coercitiva. Mi oppongo invece ad un allevamento di cani o altri animali addestrati all’uopo.

Quello che semplicemente si deve capire è che in nessuna maniera gli animali sono nati per soddisfare le nostre esigenze e necessità. Un cavallo ci farebbe comodo?

E perché no uno schiavetto allora?

La risposta mi pare ovvia.

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